Il Gender pay gap in Italia è tornato a crescere raggiungendo un indice medio del 11,1%, tradotto concretamente le lavoratrici italiane guadagnano circa 3.000 euro lordi in meno rispetto ai colleghi: significa che su 12 mesi di lavoro, iniziano a percepire il primo stipendio dell’anno nel mese di febbraio.
L’Italia è ancora l’ultima in Europa per divario occupazionale (il tasso di occupazione femminile registra una distanza del 17,9% rispetto a quello maschile), reddito medio (quello delle donne è solo il 59,5% di quello degli uomini) e ore di lavoro (appare in crescita la percentuale di donne che lavorano part-time). Sebbene si laureino circa il 12,2% delle donne in più rispetto agli uomini, oltre 1 donna su 4 è sovra istruita rispetto al proprio impiego ed è alta l’incidenza dei lavori dipendenti con bassa paga.
Secondo il World Economic Forum la parità salariale e la disparità retributiva a livello globale verrà colmata tra 257 anni e nel Global Gender Gap Report 2020 segnala che l’Italia è scesa dal 70° al 76° posto mondiale nella classifica dei Paesi che attuano la parità la salariale.
Ma perché in Italia, tanto attenta agli obiettivi di sostenibilità sociale, permane questa situazione?
Possiamo rilevare alcuni aspetti: le donne in posizione apicale sono più rare, solo il 26% delle posizioni manageriali sono ricoperte da donne sia nel pubblico che nel privato e, quando la tipologia di inquadramento è uguale, tra i due generi la retribuzione per il genere femminile è inferiore dell’8% in caso di dirigenza e dell’11% a livello impiegatizio o operaio (Job Pricing e Spring Professional). Il divario aumenta man mano che scendiamo lungo l’organigramma e nel momento in cui le donne rappresentano la maggioranza della forza lavoro.
Un ulteriore dato su cui riflettere è che il gender pay gap diventa più marcato tra chi ha una laurea (32,8%) e tra coloro che hanno conseguito un master di secondo livello (oltre il 47%). Il fenomeno è determinato da un retaggio culturale su cui ci auguriamo le politiche sociali dichiarate dal goal n 5 degli SDGs dell’ONU possano esercitare un orientamento più equo e coerente con i principi di una società civile.
In sintesi l’insoddisfazione delle lavoratrici italiane dipende da:
Se si analizza la partecipazione al mercato del lavoro delle donne, nella fascia di età 25-49 anni, si rileva un forte gap occupazionale (74,3%) tra le donne con figli in età prescolare e le donne senza figli, uno dei temi più seri di sempre per le difficoltà di conciliare carriera e vita privata.
«Queste evidenze sulle disuguaglianze di genere nei redditi, quando non derivanti da vere e proprie discriminazioni sul mercato del lavoro a scapito delle donne sono in larga parte il riflesso della “specializzazione” di genere tra lavoro retribuito e non retribuito, in virtù della quale le donne più frequentemente accettano retribuzioni inferiori a fronte di vantaggi in termini di flessibilità e orari», così si è espressa Cecilia Guerra, sottosegretaria all’Economia che pochi giorni fa, in commissione Bilancio di Senato e Camera, ha presentato una relazione che focalizza l’attenzione sul gender gap italiano. In quest’ottica, la riduzione del gender gap può concretizzarsi, secondo la rappresentante del ministero dell’Economia, attraverso il Recovery plan, considerato come “un’occasione irripetibile” per colmare le differenze di genere.
Nonostante le difficoltà a colmare queste differenze, il nostro risulta essere il Paese che più si è impegnato in questo senso e che ha registrato i maggiori progressi nel periodo 2005-2017. Tuttavia sulla base dell’ Eu Gender Equality Index l’Italia rimane, si spera per poco, l’ultima in classifica a livello europeo.